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giovedì 2 settembre 2010

Come le piante combattono il fallout nucleare di Chernobyl

La catastrofe nucleare di Chernobyl del 1986 ha vomitato sostanze radioattive in mezza Europa e reso inabitabili le aree circostanti, eppure le piante a Prypiat, l'ex fiore all'occhiello del nucleare sovietico e oggi zona morta dell'Ucraina, crescono e fioriscono ancora attorno al cadavere radioattivo del reattore.

Uno studio (Proteomics analysis of flax grown in Chernobyl area suggests limited effect of contaminated environment on seed proteome) pubblicato da "Environmental science & tecnology" chiarisce come alcune piante coltivate dall'uomo rispondono, in maniera diversa e anche a livello cellulare e proteico, agli elevati livelli di radiazioni della regione di Chernobyl. La ricerca, è finanziata dal Settimo programma quadro dell'Unione Europea - International Reintegration Grant e in parte dal programma nazionale di borse di studio della Slovacchia. I ricercatori slovacchi, ucraini e statunitensi che hanno partecipato allo studio spiegano che «L'incidente al Chernobyl nuclear power plant (Cnpp) del 26 aprile 1986 è il più grave disastro nucleare della storia umana. Sorprendentemente, mentre l'area in prossimità del Cnpp rimane sostanzialmente contaminata con radioisotopi a lunga vita, anche Sr 90 e Cs 137, l'ecosistema locale è stata in grado di adattarsi.Per valutare l'adattamento delle piante, i semi di lino locale (Linum usitatissimum) varietà Kyivskyi sono stati seminati in campi radio-contaminati di controllo della regione di Chernobyl. Una frazione proteica totale è stato isolata dai semi maturi, e analizzata con elettroforesi dimensionale 2 combinata con spettrometria tandem-masss.È interessante notare che la crescita delle piante in ambiente radio-contaminato ha avuto poco effetto sul proteoma e solo 35 punti di proteine differivano in abbondanza (p-value of ≤0.05) sui 720 spot di proteine che sono stati quantificati dei semi raccolti sia dai campi radio- contaminati che da quello di controllo. Dei 35 differentially abundant spots, 28 proteine sono state identificate utilizzando lo state-of-the-art MSE method. Sulla base delle variazioni osservate , il proteoma di semi da piante coltivate in suolo radio- contaminato presentano piccoli aggiustamenti a multipli signaling pathways».

Precedentemente la sperimentazione era stata eseguita vicino a Chernobyl su piante di soia, dove Martin Hajduch dell'Istituto di genetica vegetale dell'Accademia delle scienze slovacca e i suoi colleghi hanno piantato i semi di soia in una striscia di terreno che aveva ricevuto una dose relativamente elevata del fallout radioattivo di Chernobyl, poi hanno confrontato il raccolto con le piante coltivate in un campo di controllo a 100 km di distanza. Le fave di soia prodotte nel campo contaminato erano visibilmente più piccole di quelle dal campo di controllo. Invece i semi di lino presi in esame in questo studio più recente sembrano avere le stesse dimensioni sia nei campi contaminati che in quello di controllo e le piante di lino sembrano aver accumulato meno radioattività di quelle di soia. Hajduch dice che «La soia dimostra anche maggiori cambiamenti nelle proteine di "stoccaggio" che regolano la crescita delle sementi. In entrambi gli impianti, i due enzimi glicolitici ed i loro percorsi potrebbero avere una certa azione protettiva contro le radiazioni».

Alla ricerca ha dato un grosso contributo anche l'americano Tim Mousseau, del Department of biochemistry dell'università del Missouri, Columbia, Missouri, noto er i sui studi sugli uccelli, insetti ed altri animali svolti all'interno della Chernobyl Research Initiative dell'universita della South Carolina. Secondo Mousseu «I due studi mostrano una chiara variazione tra le specie nella loro risposta a contaminanti radioattivi. Gli esperimenti su piccola scala sono un buon punto di partenza per determinare come le varie piante possano evolvere, o adeguarsi, ma gli esperimenti su larga scala su diversi terreni potrebbe prendere anche dai dintorni, al di fuori, gli effetti delle radiazioni provenienti da altri contaminanti ambientali, come i metalli».


Fonte: Greenreport.it, 26 agosto 2010

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