Darimar's Zone: sito divulgativo dedicato alla Zona di esclusione, all'incidente nucleare di Chernobyl e al videogioco S.T.A.L.K.E.R.

giovedì 20 marzo 2014

A Chernobyl trent’anni dopo: malati anche microbi, funghi e insetti

Quasi 30 anni sono passati dall’immane disastro nucleare di Chernobyl e gli effetti di quella catastrofe, che 3 anni fa si sono rivisti a Fukushima Daiichi dopo il grande terremoto/tsunami del Giappone orientale, si sentono ancora oggi. L’area di esclusione intorno all’epicentro di Chernobyl non è (non dovrebbe) essere abitata da esseri umani, ma la natura ha occupato ciò che l’uomo ha dovuto abbandonare e qualcuno ha gridato al miracolo per il ritorno di lupi ed orsi e per il proliferare di prede, cosa che dimostrerebbe che la natura è in grado di sopravvivere e reagire anche alle radiazioni letali. In realtà animali e piante mostrano segni di contaminazione radioattiva: gli uccelli che nidificano nei dintorni di Chernobyl hanno cervelli significativamente più piccoli dei loro co-specifici, nell’area “rossa” ci sono molti meno insetti e ragni ed i mammiferi come i cinghiali mostrano segni di avvelenamento radioattivo, una contaminazione che il fall-out del disastro nucleare sembra aver portato fino ai cinghiali tedeschi ed italiani. Ma il nuovo studio “Highly reduced mass loss rates and increased litter layer in radioactively contaminated areas” pubblicato su Oecologia da un team di scienziati statunitensi, ucraini e francesi, rivela una realtà che potrebbe essere ancora più terribile: «Gli effetti della contaminazione radioattiva di Chernobyl sulla decomposizione del materiale vegetale rimangono ancora sconosciuti» avverte lo studio ed i ricercatori hanno cercato di capire se il tasso di decomposizione si fosse ridotto nei siti più contaminati a causa dell’assenza o della ridotta densità di invertebrati del suolo. «Se i microrganismi sono i principali agenti responsabili della decomposizione – spiegano – l’esclusione dei grandi invertebrati del suolo non dovrebbe pregiudicare la decomposizione». Quindi nel settembre 2007 hanno posizionato 572 sacchetti contenenti lettiera secca incontaminata, proveniente da 4 specie di alberi (quercia, acero, betulla e pino), nello strato di lettiera in 20 siti forestali vicino a Chernobyl, nei quali la radiazione di fondo variava di più di un fattore 2.600. Un quarto di questi sacchetti erano fatti di materiale che impedivano l’accesso alla lettiera degli invertebrati del suolo, ma non ai microbi ed alle spore dei funghi. Nel giugno 2008 il team di ricerca ha recuperato i sacchetti e li ha pesati per stimare la perdita di massa della lettiera che è stata inferiore del 40% nei siti più contaminati rispetto ai siti con un livello normale della radiazione di fondo per l’Ucraina. Su Oecologia si legge che «Riduzioni simili di perdita di massa nella lettiera sono state stimate per i singoli sacchetti di lettiera in siti diversi e le differenze tra le coppie di sacchetti di lettiera di siti adiacenti differiscono per livello di contaminazione radioattiva. La perdita di massa della lettiera era leggermente maggiore in presenza di grandi invertebrati del suolo che in loro assenza. Lo spessore di sottobosco aumenta con il livello di radiazioni e quando diminuisce c’è una perdita proporzionale di massa in tutti i sacchetti di lettiera». La conclusione alla quale giungono i ricercatori è che «Questi risultati suggeriscono che la contaminazione radioattiva abbia ridotto il tasso di perdita di massa della lettiera, con un maggiore accumulo di rifiuti, e che abbia effetti sulle condizioni di crescita per le piante colpite»

Quindi l’intero ecosistema intorno alla centrale nucleare di Chernobyl ha un problema fondamentale in quanto gli organismi decompositori, come i microbi, i funghi ed alcuni insetti non sembrano più in grado di svolgere correttamente le loro funzioni essenziali per qualsiasi ambiente: il riciclaggio della materia organica nel terreno. Secondo gli autori dello studio la compromissione di questo processo di base potrebbe avere effetti a catena sull’intero ecosistema. Il principale autore dello studio, Timothy A. Mousseau, del Department of biological sciences dell’università della South Carolina, spiega a Smithsonian.com perché il suo team ha deciso di occuparsi di questo problema: «Dal 1991 conduciamo una ricerca a Chernobyl e nel corso del tempo abbiamo notato un significativo accumulo di lettiera. Inoltre, gli alberi nella famigerata “Red Forest”, una zona dove tutti gli alberi di pino sono diventati di un colore rossastro e poi sono morti poco dopo l’incidente, non sembravano essere in decomposizione, anche 15 o 20 anni dopo il disastro. A parte alcune formiche, i tronchi degli alberi morti erano in gran parte indenni quando siamo stati li e li abbiamo trovati. E’ stato sorprendente, dato che nelle foreste dove vivo, un albero caduto diventa soprattutto segatura dopo un decennio di giace a terra». Il team di Mousseau si è quindi chiesto se quegli alberi pietrificati e l’ apparente aumento delle foglie morte sul suolo della foresta fossero il segno di qualcosa di più grande ed ancora più preoccupante hanno deciso di eseguire alcuni test sul campo ed hanno scoperto che lo strato della lettiera è due a tre volte più spesso nelle zone “rosse” di Chernobyl, dove è più intenso l’avvelenamento radioattivo. Ma questo non bastava ancora a dimostrare che la causa di questa differenza fossero le radiazioni. E’ qui che è venuta l’idea di posizionare sacchetti di lettiera incontaminata di quercia, acero, betulla e pino Nelle aree prive di radiazioni dal 70 al 90% delle foglie contenute nei sacchetti dopo un anno erano sparite, ma nella zone radioattive nei sacchetti è rimasto ben il 60% del peso originale delle foglie. Poi i ricercatori hanno confrontato i sacchetti inaccessibili agli insetti con quelli accessibili ed hanno constatato che gli insetti svolgono un ruolo significativo nella degradazione della lettiera, ma che microbi e funghi hanno in questo un ruolo molto più importante. La deposizione di così tanti sacchetti in molti luoghi diversi ha permesso agli scienziati di tener conto anche di altri fattori esterni come l’umidità, la temperatura e il tipo di terreno forestale, per assicurarsi che non ci fosse nulla oltre a livelli di radiazioni che incidesse sulla decomposizione delle foglie. Mousseau conclude: «L’essenza dei nostri risultati è che la radiazione ha inibito la decomposizione microbica della lettiera di foglie sullo strato superiore del terreno. Ciò significa che i nutrienti non ritornano efficacemente nel suolo, il che potrebbe essere una delle cause alla base dei lenti livelli di crescita degli alberi intorno a Chernobyl»

Dato che altri studi, dei quali si è occupato anche greenreport.it, hanno lanciato l’allarme sull’elevato rischio di incendi nell’area di Chernobyl, Mousseau ed i suoi colleghi pensano che la lettiera non decomposta, accumulatasi in quasi 28 anni, rappresenta una buona fonte di combustibile per un incendio boschivo. Se questo accadesse ci sarebbero altre preoccupazioni oltre quelle ambientali: un grande incendio nell’area rossa di Chernobyl potrebbe provocare un altro fall-out radioattivo, con la cenere contaminata che ricadrebbe fuori dalla zona di esclusione e Mousseau conferma: «C’è una crescente preoccupazione che ci possa essere un incendio catastrofico nei prossimi anni». Purtroppo non esiste una soluzione per mettere riparo ad una catastrofe che sta diventando sempre più ecosistemica, bisognerebbe tenere sotto stretto controllo l’area ed intervenire immediatamente per domare subito gli eventuali incendi, ma l’ucraina post-rivoluzione sembra occupata più a risolvere le sue questioni con la Russia ed i russofoni che ad affrontare il disastro di Chernobyl che ha sempre sottovalutato e considerato come un’eredità dell’Urss della quale dovrebbe occuparsi la comunità internazionale. Qualcosa comunque si sta muovendo ed i ricercatori che hanno redatto lo studio pubblicato da Oecologia stanno collaborando con team di scienziati giapponesi per determinare se anche nelle foreste di Fukushima si stia formando una zona morta microbica simile a quella di Chernobyl.
Fonte: Greenreport.it, 19/03/2014