In Giappone li chiamano “superpompieri”. In Unione Sovietica erano, in gergo staliniano, “i liquidatori” (liquidatsija era la parola usata nelle purghe). Sono gli unici che possono avvicinarsi e lavorare nei pressi del reattore numero uno di Fukushima. I giapponesi hanno speciali tute di sicurezza, segnalatori di radiazioni ed esposizioni ridotte al minimo. Per i colleghi russi andò ben diversamente. Avevano misere maschere e lastre di piombo malamente ritagliate. Li chiamavano “stalker”, prendendo a prestito il film di Andrej Tarkovskij. Letteralmente significa “cacciatori”, ma in russo il senso è semplicemente quello di “liquidatori”. Per il londinese Times, sono “gli uomini che salvarono l’Europa da Chernobyl”. “Biorobots”, robot biologici, come venivano chiamati, che lottavano contro la “bestia”. Di quei pompieri resta appena un monumento nel cimitero Mitino a Mosca.
Bisognava assolutamente impedire che la radioattività continuasse a diffondersi e il potere sovietico non esitò a sacrificare i suoi migliori soldati e medici, alle prese con una radioattività dieci volte più grande di Hiroshima. C’erano i minatori ucraini che con i picconi scavarono una galleria sotto la pancia del reattore. Molti di loro spalarono a mani nude la grafite radioattiva che disfaceva come lava tutto ciò che toccava. La tuta protettiva era così pesante che ne rallentava la corsa. Così molti andarono senza, anche senza sapere avrebbero perso la pelle a causa delle radiazioni. Ad altri veniva detto di bere vodka, perché si pensava che aiutasse a combattere la radioattività.
C’erano combattenti anomali come i “dosimetristi”: disegnavano la cartografia della centrale distrutta, vagando come spettri tra le rovine mortali, misurando la radioattività zona per zona. Molti di loro, malati e morenti, finiranno i propri giorni nel sanatorio di Oksakovshchina, dove un tempo andavano in vacanza i burocrati sovietici.
I “liquidatori” si arrampicavano sui tetti, avevano un minuto per arrivare su, buttare un po’ di scorie radioattive nel grande buco del reattore e ridiscendere. Entrarono in azione quando fallirono i robot meccanici (andarono in tilt a causa delle radiazioni e il primo che arrivò sul tetto si imbizzarrì e precipitò nel nucleo, come a suicidarsi). A manovrare quei robot, che ironia della sorte erano di fabbricazione giapponese, c’erano scienziati che moriranno per essersi esposti alle prime radiazioni. Seicentomila persone si alternarono dal 26 aprile alla fine di dicembre del 1986, quando migliaia di tonnellate di cemento e un’armatura di ferro coprirono con un sarcofago il reattore. Ebbero la promessa di un raddoppio di paga o di un compenso triplicato se accettavano di lavorare molto vicino alla centrale. In verità chi si rifiutava di “liquidare” veniva considerato un disertore. La stessa logica portò a pensare che per dare un messaggio rassicurante all’opinione pubblica internazionale bisognava far sfilare più di un milione di persone a Kiev, dove l’inquinamento radioattivo era al massimo. Ai “liquidatori” si pensò di far issare una bandiera sulla ciminiera alta settantotto metri e mai decontaminata: i “liquidatori” avevano tre minuti al massimo per salire la scaletta, tre per fissare la bandiera e ancora tre per ritornare indietro. “Il popolo sovietico è più forte dell’atomo”, era scritto sulla bandiera.
Quasi tutti questi pompieri “semplici” morirono per le conseguenze radioattive. Colpiti dalla leucemia, dal cancro alla tiroide, dalle malformazioni genetiche, dalle mutazioni del Dna che verranno trasmesse ai discendenti. Vivevano tutti a Prepiat, la città dei dipendenti della centrale a due chilometri da Chernobyl. Prima dell’incidente ci abitavano 40 mila persone. Oggi restano strane pianure e boschi che grazie alle radiazioni hanno sviluppato una surreale bio-diversità. Sembrano molto belli. C’è chi lo chiama “Eden che uccide”. Alle famiglie dei “liquidatori” resta una medaglia: da una parte c’è il disegno stilizzato di Chernobyl e dietro una colomba della pace. Oppure l’elica nera, il simbolo della radioattività, e una semplice frase: “Agli eroi liquidatori. Aprile 1986”. Restano immortalati nei filmini di propaganda sovietica in bianco e nero: i pompieri eroi salutano verso la camera e poi si abbracciano impacciati dentro le loro tute, piangendo, perché sanno di essere condannati. Morendo, salvarono l’Europa.
Bisognava assolutamente impedire che la radioattività continuasse a diffondersi e il potere sovietico non esitò a sacrificare i suoi migliori soldati e medici, alle prese con una radioattività dieci volte più grande di Hiroshima. C’erano i minatori ucraini che con i picconi scavarono una galleria sotto la pancia del reattore. Molti di loro spalarono a mani nude la grafite radioattiva che disfaceva come lava tutto ciò che toccava. La tuta protettiva era così pesante che ne rallentava la corsa. Così molti andarono senza, anche senza sapere avrebbero perso la pelle a causa delle radiazioni. Ad altri veniva detto di bere vodka, perché si pensava che aiutasse a combattere la radioattività.
C’erano combattenti anomali come i “dosimetristi”: disegnavano la cartografia della centrale distrutta, vagando come spettri tra le rovine mortali, misurando la radioattività zona per zona. Molti di loro, malati e morenti, finiranno i propri giorni nel sanatorio di Oksakovshchina, dove un tempo andavano in vacanza i burocrati sovietici.
I “liquidatori” si arrampicavano sui tetti, avevano un minuto per arrivare su, buttare un po’ di scorie radioattive nel grande buco del reattore e ridiscendere. Entrarono in azione quando fallirono i robot meccanici (andarono in tilt a causa delle radiazioni e il primo che arrivò sul tetto si imbizzarrì e precipitò nel nucleo, come a suicidarsi). A manovrare quei robot, che ironia della sorte erano di fabbricazione giapponese, c’erano scienziati che moriranno per essersi esposti alle prime radiazioni. Seicentomila persone si alternarono dal 26 aprile alla fine di dicembre del 1986, quando migliaia di tonnellate di cemento e un’armatura di ferro coprirono con un sarcofago il reattore. Ebbero la promessa di un raddoppio di paga o di un compenso triplicato se accettavano di lavorare molto vicino alla centrale. In verità chi si rifiutava di “liquidare” veniva considerato un disertore. La stessa logica portò a pensare che per dare un messaggio rassicurante all’opinione pubblica internazionale bisognava far sfilare più di un milione di persone a Kiev, dove l’inquinamento radioattivo era al massimo. Ai “liquidatori” si pensò di far issare una bandiera sulla ciminiera alta settantotto metri e mai decontaminata: i “liquidatori” avevano tre minuti al massimo per salire la scaletta, tre per fissare la bandiera e ancora tre per ritornare indietro. “Il popolo sovietico è più forte dell’atomo”, era scritto sulla bandiera.
Quasi tutti questi pompieri “semplici” morirono per le conseguenze radioattive. Colpiti dalla leucemia, dal cancro alla tiroide, dalle malformazioni genetiche, dalle mutazioni del Dna che verranno trasmesse ai discendenti. Vivevano tutti a Prepiat, la città dei dipendenti della centrale a due chilometri da Chernobyl. Prima dell’incidente ci abitavano 40 mila persone. Oggi restano strane pianure e boschi che grazie alle radiazioni hanno sviluppato una surreale bio-diversità. Sembrano molto belli. C’è chi lo chiama “Eden che uccide”. Alle famiglie dei “liquidatori” resta una medaglia: da una parte c’è il disegno stilizzato di Chernobyl e dietro una colomba della pace. Oppure l’elica nera, il simbolo della radioattività, e una semplice frase: “Agli eroi liquidatori. Aprile 1986”. Restano immortalati nei filmini di propaganda sovietica in bianco e nero: i pompieri eroi salutano verso la camera e poi si abbracciano impacciati dentro le loro tute, piangendo, perché sanno di essere condannati. Morendo, salvarono l’Europa.
Fonte: ilfoglio.it, 16 marzo 2011.
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