Da «inferno radioattivo» a «paradiso» per la fauna selvatica, che ha trovato un habitat ideale in una zona boscosa incolta e abbandonata a se stessa: 25 anni dopo l’esplosione della centrale nucleare, Chernobyl è molto diversa dal deserto che si potrebbe immaginare.
«Non c’è ragione per cui l’uomo debba tornare qui», dice Sergey Gashchack, vicedirettore del Laboratorio Internazionale di Radioecologia che ha sede nella città più giovane dell’Ucraina, Slavutych, a 50 chilometri da Chernobyl. La zona di esclusione intorno alla centrale si estende per 2.600 chilometri quadrati, un’area pari a quella del Belgio.
«Qui non esistono più infrastrutture, le strade sono distrutte, non c’è elettricità», aggiunge. L’unico intervento da parte del governo locale è stato il rimboschimento. Negli anni gli alberi sono cresciuti e le foreste si sono sviluppate senza controllo; i rami spezzati e caduti si sono accatastati, diventando tane ideali per decine di specie di mammiferi che non vivrebbero mai in prossimità di centri abitati. «Non ci sono mostri, né mutanti, ma nel tempo la vita selvatica è tornata ad essere abbondante», osserva Gashchack.
«Il paradosso - prosegue - è che la più grande catastrofe tecnologica e che ha portato ad un livello di radioattività molto pericoloso, tanto da costringere tutta la popolazione umana ad abbandonare l’area, oggi è diventato una sorta di paradiso per la flora e la fauna selvatiche». Come è potuto accadere? Tanti anni di ricerche hanno portato Gashchack alla conclusione che «sebbene le radiazioni siano un fattore distruttivo, il rapporto fra dose ed effetto finora individuato vale principalmente nella fase acuta del rilascio radioattivo». Nel tempo, prosegue, questo rapporto cambia perché entrano in gioco nuovi fattori, compresa la capacità del Dna di riparare i danni, una «radioresistenza» innata, insieme ad altri fattori biologici o ecologici. «La relazione dose-effetto non è applicata nel 99% del territorio», rileva l’esperto.
Si spiega così perché in questo grande territorio abbandonato a se stesso per circa il 90% siano tornati tanti animali che si rifugiano tra gli alberi, come pipistrelli, gufi, aquile. La zona di esclusione è diventata un rifugio anche per orsi, linci, lupi, cinghiali, castori, cervi.
«Non c’è ragione per cui l’uomo debba tornare qui», dice Sergey Gashchack, vicedirettore del Laboratorio Internazionale di Radioecologia che ha sede nella città più giovane dell’Ucraina, Slavutych, a 50 chilometri da Chernobyl. La zona di esclusione intorno alla centrale si estende per 2.600 chilometri quadrati, un’area pari a quella del Belgio.
«Qui non esistono più infrastrutture, le strade sono distrutte, non c’è elettricità», aggiunge. L’unico intervento da parte del governo locale è stato il rimboschimento. Negli anni gli alberi sono cresciuti e le foreste si sono sviluppate senza controllo; i rami spezzati e caduti si sono accatastati, diventando tane ideali per decine di specie di mammiferi che non vivrebbero mai in prossimità di centri abitati. «Non ci sono mostri, né mutanti, ma nel tempo la vita selvatica è tornata ad essere abbondante», osserva Gashchack.
«Il paradosso - prosegue - è che la più grande catastrofe tecnologica e che ha portato ad un livello di radioattività molto pericoloso, tanto da costringere tutta la popolazione umana ad abbandonare l’area, oggi è diventato una sorta di paradiso per la flora e la fauna selvatiche». Come è potuto accadere? Tanti anni di ricerche hanno portato Gashchack alla conclusione che «sebbene le radiazioni siano un fattore distruttivo, il rapporto fra dose ed effetto finora individuato vale principalmente nella fase acuta del rilascio radioattivo». Nel tempo, prosegue, questo rapporto cambia perché entrano in gioco nuovi fattori, compresa la capacità del Dna di riparare i danni, una «radioresistenza» innata, insieme ad altri fattori biologici o ecologici. «La relazione dose-effetto non è applicata nel 99% del territorio», rileva l’esperto.
Si spiega così perché in questo grande territorio abbandonato a se stesso per circa il 90% siano tornati tanti animali che si rifugiano tra gli alberi, come pipistrelli, gufi, aquile. La zona di esclusione è diventata un rifugio anche per orsi, linci, lupi, cinghiali, castori, cervi.
Fonte: Il Secolo XIX.it, 22 aprile 2011.
Approfondimenti:
Chernobyl, flora e fauna e gli "specchietti per le allodole"
Darimar's Zone - La Zona di esclusione, la Foresta rossa
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