In accordo con lo spirito che mi ha spinto a creare D.Z. desidero pubblicare, in questo periodo, la posizione di Massimo Bonfatti, tralasciando volutamente i numerosi articoli comparsi di recente sul Web a proposito della "Natura che vince sulle radiazioni" (o titoli similari). Non nego spazio a tali articoli per partito preso (li ho supportati spesso, in passato, e ho tutte le intenzioni di dadicare loro il giusto spazio anche in futuro) bensì perchè, a oggi, non si tratta affatto di notizie attuali, nè di novità nè di nulla di particolare: sono, effettivamente, anni (potete trovare qualcosa persino nell'Archivio 2008-2009 su D.Z.!) che periodicamente vengono pubblicati articoli di tal genere.
Ben vengano, intendiamoci! Io, personalmente, li trovo interessanti e degni di attenzione, quando ben scritti e adeguatamente argomentati. Il fatto è che trovo anche "imbarazzante" riciclare ogni "n" mesi la stessa notizia proponendola come se fosse l'ultima frontiera in materia di scoperte sui postumi del disastro di Chernobyl.
Quindi, per questo giro, mi rifiuto di dare eco a notizie - obsolete - di tal genere e riservo lo spazio a una posizione "antagonista", per così dire, che compie almeno lo sforzo di proporre una sorta di "punto della situazione" attuale:
Non mi stupisce il fatto che, approssimandosi l’anniversario dell’incidente nucleare di Chernobyl (e per di più trattandosi, come quest’anno, del venticinquesimo), sia incominciato lo stillicidio di notizie tese a dimostrare l’ormai “tranquillizzante” situazione ecologica attorno alla centrale di Chernobyl. Sembrano notizie “sensazionali”, ma sono le stesse che circolano ormai da diverso tempo e riprese con voluta scadenza temporale. Le ultime in ordine di tempo riguardano articoli/servizi con titoli del genere: “La natura vince a Chernobyl”, “A Chernobyl tornano le piante”, oppure “Frutta e verdura da Chernobyl”.
La visione dei filmati o la lettura degli articoli non fa sfuggire, a chi è attento, che essi enfatizzano il ruolo della natura che vince sulle radiazioni (e come sarebbe bello che fosse effettivamente così!) senza apportare nessun elemento derivato da analisi o da osservazioni condotte con procedimento scientifico, ma collocando ad arte nei servizi (in secondo piano rispetto al presunto sensazionalismo della notizia) le forme dubitative (“sembrano”, “forse”, “si sostiene”, “non sappiamo ancora”).
Mi ricordo che nel 1996 ero nella “zona di esclusione” nella provincia di Khoiniki (Bielorussia) e già si cominciava a parlare di essa come “Parco naturale ecologico” prevedendo l’immissione del bisonte dal parco di Belovezhskaya Pushcha (al confine fra Bielorussia e Polonia), come poi effettivamente è avvenuto, e l’introduzione di vitigni dalla Moldova per produrre vino.
Queste affermazioni erano sostenute da progetti finanziati dall’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) a cui prendevano parte notabili e ricercatori locali, stipendiati giornalmente con l’equivalente mensile per quei tempi (50 dollari). Era il rammarico che mi esternava il compianto professore Miljutin, rettore dell’Università Sakharov di Minsk.
E quella attuale non è altro che la stessa politica di allora dell’AIEA, a cui la maggiore lontananza dall’evento (una generazione) ed il ricordo che tende a scemare (quando non a infastidire in epoca di “rilancio nucleare”) permettono una migliore dissimulazione ed una maggiore presunta credibilità.
Ma non è così!
Nel 1999 il professore Timothy Mousseau, dell’Università della Czarolina del Sud si recò nella “Zona di esclusione” accompagnato da Anders Møller, un ornitologo e biologo evoluzionista dell’Università Pierre e Marie Curie di Parigi per effettuare una serie di ricerche.
Queste scatenarono un dibattito intenso sugli effetti delle radiazioni sugli esseri umani e animali.
Come si sa, il fallout radioattivo di Chernobyl aveva contaminato circa 80.000 chilometri quadrati di territori in tutta Europa e nel mondo, oltre 300.000 persone erano state evacuate da una zona di più di 1.300 chilometri quadrati attorno al reattore.
Eppure, a fronte di questi dati, la città abbandonata di Pripyat cominciava a venire descritta come un “rifugio” per la fauna selvatica: numerosi avvistamenti di lupi, orsi e alci vaganti per le strade deserte e rondini che volavano fra i palazzi abbandonati.
L’implicazione sottesa era la seguente: se la fauna selvatica poteva ritornare così presto, le radiazioni nucleari, e di conseguenza l’energia atomica, avrebbero potuto non essere così pericolose, come affermato.
James Lovelock, il creatore della teoria Gaia, scrisse persino che il mondo naturale “sarebbe idoneo ad accogliere ed a proteggere da agenti esterni, fra cui l’uomo, le scorie nucleari… la preferenza della fauna selvatica per i siti di rifiuti atomici, suggerisce che i luoghi migliori per il loro smaltimento sono le foreste tropicali ed altri habitat inaccessibili dallo sviluppo”.
Anche il rapporto del Chernobyl Forum nel 2005, minimizzava le conseguenze di Chernobyl, affermando che, a lungo termine, i tumori causati dall’incidente, alla fine uccideranno solo 4.000 persone circa (sigh!).
In realtà, in un’epoca di “bombe sporche” e di proliferazione nucleare, Chernobyl ha solo la funzione di essere “una conseguenza estrema di un esperimento maligno”.
Ma anche se i livelli di radiazione sono diminuiti nel corso di 25 anni, esistono ancora zone “calde”. Il Prof. Mosseau ha, infatti, rilevato che nelle aree più contaminate vi sono 300 microSieverts/ora (da contatore Geiger), superiore di 1.200 volte i livelli normali di radiazione, o 15 volte in più rispetto ad una radiografia toracica. È, quindi, l’esposizione a lungo termine (il vero parametro da prendere in considerazione) a diventare deleteria e, di conseguenza, la contaminazione ambientale di radionuclidi come il cesio 137, lo stronzio 90 e il plutonio 239, che hanno tempi di dimezzamento rispettivamente di 30, 28,5 e 24.100 anni.
Poiché, oltre questo termine, i radionuclidi decadranno alla metà delle loro concentrazioni precedenti, significa che continueranno per anni a contaminare i terreni (per esempio, 300 anni per il Cesio 137).
Mousseau afferma: “Quello che deve preoccupare è l’alimentazione, in quanto l’ingestione è la via principale per l’esposizione e l’intossicazione radioattiva”.
E nonostante le storie sulla natura fiorente nella zona di Chernobyl, il professore, già allora e adesso, non ne è convinto.
La prima sua scoperta (insieme a Møller) fu l’aumento delle mutazioni genetiche degli uccelli abitanti la zona di esclusione intorno a Chernobyl.
La coppia esaminò 20.000 “rondini da fienile” trovando in questi animali zampe storte, becchi deformi, code malformate, occhi irregolari e tumori.
Alcuni uccelli avevano piume rosse, dove avrebbero dovuto essere blu, e viceversa.
A causa della contaminazione della catena alimentare, le specie di uccelli erano diminuite di oltre il 50% nelle zone ad alta contaminazione radioattiva. Solo una piccola parte di rondini riesce a riprodursi, e solo il 5% delle uova riesce a schiudersi. Meno di un terzo degli uccelli raggiungono l’età adulta. Mousseau e Møller hanno potuto confermare queste anomalie genetiche esaminando lo sperma delle rondini.
Una delle loro scoperte più interessanti fu la connessione tra gli antiossidanti, le radiazioni ed il colore del piumaggio. In altre parole, negli esseri umani e negli uccelli, gli antiossidanti aiutano ad annullare gli effetti delle radiazioni. “Gli uccelli, con piumaggio brillante, che migrano a grandi distanze, come le rondini, devono impiegare un altissimo tasso metabolico producendo, come sottoprodotto, molti radicali liberi che, a loro volta, danneggiano i tessuti”, spiega Mousseau.
“Devono quindi utilizzare le scorte di antiossidanti presenti nel sangue e nel fegato per compensare questo danno potenziale. Le femmine utilizzano grandi quantità di antiossidanti per le loro uova, e questa è la ragione per cui anche il tuorlo è giallo brillante”.
Ma alla fine della loro migrazione le risorse di energia devono essere reintegrate. “E questo non è possibile da realizzare nelle zone fortemente contaminate”.
Anche gli insetti soffrono gli effetti della radioattività. Nelle zone più contaminate ci sono meno farfalle, calabroni, cavallette, libellule e ragni. “Il fatto che gli insetti, compresi gli impollinatori, siano sensibili alla contaminazione ha un impatto significativo sul resto dell’ecosistema”.
Quanto affermato da Mousseau è, quindi, il ritratto di un ecosistema in crisi.
Come fanno altri scienziati a dimostrare il contrario?
Per esempio, i dottori Baker e Chesser della Texas Tech. University, pubblicarono un loro studio sulla rivista “American Scientist” nel 2006. “Siamo stati sorpresi dalla varietà di mammiferi che vivono all’ombra del reattore distrutto dopo così poco tempo”.
Questi studi, in contrasto con quelli di Mousseau e Moller, parlano di una popolazione di cinghiali 10 – 15 volte superiore nella zona di esclusione rispetto all’esterno e non riscontrano tassi elevati di mutazione o prove che differenzino la percentuale di sopravvivenza tra gli animali che vivono a Chernobyl con quelli che vivono in ambienti puliti.
Ma Mousseau afferma: “Chernobyl non è un paesaggio lunare. E’ possibile vedere uccelli e mammiferi, lupi, volpi, ci sono alberi e piante – quindi non è un deserto totale. La ragione di questo malinteso è che la concentrazione della contaminazione radioattiva non è uniforme. Così si possono avere tanti essere viventi ed organismi in una zona, e nessuno in un’altra. Per un biologo esperto, però, tutto ciò dovrebbe essere molto evidente”. Ed è quanto, da un altro punto di vista, ha dimostrato il professore Bandazhevsky. La presenza di zone con diminuiti livelli di contaminazione radioattiva, non produce subito in nuovi organismi viventi sopraggiunti (sia fauna che flora), manifestazioni patologiche o sintomatologiche: è questo che fa credere o illudere ad un ritorno alla normalità. Ma in queste zone meno contaminate, in cui il decadimento radioattivo per varie cause è stato più veloce, è presente l’azione costane e cronica dei radionuclidi come il Cesio, lo Stronzio e il Plutonio, di cui il tempo di dimezzamento (o emivita) non equivale al dimezzamento della sua durata nell’ambiente, ma definisce il tempo occorrente perché la metà degli atomi decadano in un altro elemento. Per questo bisogna già pensare alla pericolosa attività di alcuni prodotti derivati, quali l’Americio e il Bario. Questa azione a lungo tempo si manifesta con una emissione costante di basse dosi di radiazioni che, col tempo appunto, indurranno mutazioni genetiche negli organismi viventi residenti (senza evidenza clinica e, quindi, supportando l’idea/illusione di un “buon stato di salute”) e, solo secondariamente (anni successivi o future generazioni) e sotto il loro continuo stimolo, potranno dare segni oggettivi.
Questa è la realtà che deve tenere presente chi osserva l’evolversi degli avvenimenti non solo nella zona di esclusione, ma in tutte le zone colpite dal fallout radioattivo.
Un altro approccio, oltre che scientificamente sbagliato, è disonesto.
Per questo concordo con Mousseau che, nei confronti degli scienziati (soprattutto ucraini) che criticano le conclusioni del suo studio e per i quali la zona sta diventando un rifugio per la fauna selvatica a causa della mancanza di interferenza umana, afferma che queste dichiarazioni sono “puramente aneddotiche”.
E a favore di Mousseau vi è il fatto che nessuno è stato in grado di effettuare una ricerca così rigorosa (quasi quattro anni di catalogazione e studio, conteggio rigoroso dei soggetti presi in esame, loro distribuzione e rapporto con la contaminazione di fondo).
“Gli animali indagati, e soprattutto gli uccelli, offrono la miglior “misura quantitativa” dell’impatto sulla fauna selvatica della contaminazione radioattiva ed il censimento delle specie animali in quest’area, effettuato per quasi quattro anni, ha prodotto notevoli prove che dimostrano come la radioattività abbia un “impatto significativo” sulla diminuzione della biodiversità. La verità è che gli effetti nocivi della contaminazione radioattiva sono talmente grandi da risultare schiaccianti. Questo è il primo documento che fornisce dati rigorosi e quantitativi sul fatto che la vita dei mammiferi della zona chiusa è significativamente influenzata dalla presenza della contaminazione radioattiva. In ogni caso, non penso che sia una cattiva idea definire questa zona “un rifugio per la fauna selvatica”, se questo venisse però utilizzato come “laboratorio naturale”, in cui fosse possibile studiare le conseguenze a lungo termine di un incidente di tale tipo”.
Il professor Mousseu ha anche criticato un recente film documentario intitolato “Chernobyl, a natural history", promosso da una società di produzione francese (chissà come mai, proprio francese!!!!), che mostra come la natura abbia “ricolonizzato” la zona di esclusione in assenza dell’uomo: “Se la società vuole saperne di più sulle conseguenze a lungo termine delle grosse catastrofi ambientali – e Chernobyl è solo una delle tante – è importante che tutti noi (ricercatori) ci assumiamo seriamente le nostre responsabilità”.
Inoltre il Prof. Mousseau ha recentemente iniziato a collaborare con l’Ospedale di Biologia radioattiva a Kiev, per uno studio a lungo termine sulle persone che vivono nella zona: oltre 11.000 adulti e 2.000 bambini nella regione di Narodichi, a 50 chilometri da Chernobyl.
Il professore afferma che l’incidenza del cancro, dei difetti alla nascita e la riduzione della vita media è, tra gli abitanti della regione, allarmante: “Esiste una montagna di informazioni che comprendono tutti i punti sulle conseguenze significative dell’esposizione cronica alle radiazioni della popolazione umana. Quali saranno le conseguenze per i figli di questi bambini?”
Anche i dati resi pubblici dal prof Bandazhevsky ne sono un’ulteriore conferma: soprattutto l’inversione delle linee dei tassi di natalità e mortalità nelle zone maggiormente contaminate (proprio in prossimità di quella “zona di esclusione” che, per alcuni, si è rivitalizzata), l’aumento dei tumori e delle patologie del sistema cardiocircolatorio (soprattutto nei bambini) e delle patologie e malformazioni genetiche.
Mi preme comunque ricordare come, dalle ricerche di Mousseau e Møller, si evinca la migliore saggezza delle rondini rispetto agli umani ricolonizzatori. A Chernobyl, infatti, gli uccelli scelgono di nidificare in posti con un basso livello di radioattività di fondo. Mousseau e Møller hanno posizionato, per le loro ricerche, più di 200 cassette per nidi nella Foresta Rossa, a circa 3 Km di distanza dal reattore nucleare esploso nel 1986. Usando questi nidi artificiali, i due ricercatori hanno studiato le abitudini di nidificazione di due specie di uccelli – la cinciallegra Parus major e la balia nera Ficedula hypoleuca. Volevano osservare se entrambe le specie avrebbero fatto differenze tra i siti di nidificazione con livelli alti e bassi di radiazione di fondo. Le cassette da nido si trovavano in posizioni molto simili, con risorse alimentari comparabili a portata di becco, ma con una radioattività di fondo diversa, dovuta alla distribuzione a macchia di leopardo del fallout post incidente. I livelli vicino ad alcuni nidi erano di 2.000 volte superiori rispetto al fondo naturale di radioattività. Mousseau e Møller hanno annotato che entrambe le specie preferiscono di gran lunga i nidi posti in zone a bassa radioattività e che la balia nera sembra essere più sensibile della cinciallegra. E questo non ci dovrebbe insegnare niente?
Infine, un breve accenno per quanto riguarda la possibilità di coltivare nella zona di esclusione di Chernobyl: semplicemente la forma migliore per immettere in circolo molti isotopi interrati, oltre che metterli in contatto con le falde acquifere.
Già, dai miei primi viaggi nelle zone contaminate da Chernobyl (1994), sentivo parlare di profondi scassi e arature per cercare di “diluire” la contaminazione radioattiva presente al suolo. Tutto inutile!
Ora con l’ipotesi di riavviare forme di coltivazione verranno rintrodotte queste tecniche (e non solo) tipiche dell’agricoltura.
Se non un crimine, almeno una grande stupidata per questi nuovi “Stranamore” (nel senso della canzone di Vecchioni: “Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione / e quando fu di fronte “alla zona” si sentì un coglione / perchè più in là non si poteva conquistare niente…”).
Ben vengano, intendiamoci! Io, personalmente, li trovo interessanti e degni di attenzione, quando ben scritti e adeguatamente argomentati. Il fatto è che trovo anche "imbarazzante" riciclare ogni "n" mesi la stessa notizia proponendola come se fosse l'ultima frontiera in materia di scoperte sui postumi del disastro di Chernobyl.
Quindi, per questo giro, mi rifiuto di dare eco a notizie - obsolete - di tal genere e riservo lo spazio a una posizione "antagonista", per così dire, che compie almeno lo sforzo di proporre una sorta di "punto della situazione" attuale:
Non mi stupisce il fatto che, approssimandosi l’anniversario dell’incidente nucleare di Chernobyl (e per di più trattandosi, come quest’anno, del venticinquesimo), sia incominciato lo stillicidio di notizie tese a dimostrare l’ormai “tranquillizzante” situazione ecologica attorno alla centrale di Chernobyl. Sembrano notizie “sensazionali”, ma sono le stesse che circolano ormai da diverso tempo e riprese con voluta scadenza temporale. Le ultime in ordine di tempo riguardano articoli/servizi con titoli del genere: “La natura vince a Chernobyl”, “A Chernobyl tornano le piante”, oppure “Frutta e verdura da Chernobyl”.
La visione dei filmati o la lettura degli articoli non fa sfuggire, a chi è attento, che essi enfatizzano il ruolo della natura che vince sulle radiazioni (e come sarebbe bello che fosse effettivamente così!) senza apportare nessun elemento derivato da analisi o da osservazioni condotte con procedimento scientifico, ma collocando ad arte nei servizi (in secondo piano rispetto al presunto sensazionalismo della notizia) le forme dubitative (“sembrano”, “forse”, “si sostiene”, “non sappiamo ancora”).
Mi ricordo che nel 1996 ero nella “zona di esclusione” nella provincia di Khoiniki (Bielorussia) e già si cominciava a parlare di essa come “Parco naturale ecologico” prevedendo l’immissione del bisonte dal parco di Belovezhskaya Pushcha (al confine fra Bielorussia e Polonia), come poi effettivamente è avvenuto, e l’introduzione di vitigni dalla Moldova per produrre vino.
Queste affermazioni erano sostenute da progetti finanziati dall’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) a cui prendevano parte notabili e ricercatori locali, stipendiati giornalmente con l’equivalente mensile per quei tempi (50 dollari). Era il rammarico che mi esternava il compianto professore Miljutin, rettore dell’Università Sakharov di Minsk.
E quella attuale non è altro che la stessa politica di allora dell’AIEA, a cui la maggiore lontananza dall’evento (una generazione) ed il ricordo che tende a scemare (quando non a infastidire in epoca di “rilancio nucleare”) permettono una migliore dissimulazione ed una maggiore presunta credibilità.
Ma non è così!
Nel 1999 il professore Timothy Mousseau, dell’Università della Czarolina del Sud si recò nella “Zona di esclusione” accompagnato da Anders Møller, un ornitologo e biologo evoluzionista dell’Università Pierre e Marie Curie di Parigi per effettuare una serie di ricerche.
Queste scatenarono un dibattito intenso sugli effetti delle radiazioni sugli esseri umani e animali.
Come si sa, il fallout radioattivo di Chernobyl aveva contaminato circa 80.000 chilometri quadrati di territori in tutta Europa e nel mondo, oltre 300.000 persone erano state evacuate da una zona di più di 1.300 chilometri quadrati attorno al reattore.
Eppure, a fronte di questi dati, la città abbandonata di Pripyat cominciava a venire descritta come un “rifugio” per la fauna selvatica: numerosi avvistamenti di lupi, orsi e alci vaganti per le strade deserte e rondini che volavano fra i palazzi abbandonati.
L’implicazione sottesa era la seguente: se la fauna selvatica poteva ritornare così presto, le radiazioni nucleari, e di conseguenza l’energia atomica, avrebbero potuto non essere così pericolose, come affermato.
James Lovelock, il creatore della teoria Gaia, scrisse persino che il mondo naturale “sarebbe idoneo ad accogliere ed a proteggere da agenti esterni, fra cui l’uomo, le scorie nucleari… la preferenza della fauna selvatica per i siti di rifiuti atomici, suggerisce che i luoghi migliori per il loro smaltimento sono le foreste tropicali ed altri habitat inaccessibili dallo sviluppo”.
Anche il rapporto del Chernobyl Forum nel 2005, minimizzava le conseguenze di Chernobyl, affermando che, a lungo termine, i tumori causati dall’incidente, alla fine uccideranno solo 4.000 persone circa (sigh!).
In realtà, in un’epoca di “bombe sporche” e di proliferazione nucleare, Chernobyl ha solo la funzione di essere “una conseguenza estrema di un esperimento maligno”.
Ma anche se i livelli di radiazione sono diminuiti nel corso di 25 anni, esistono ancora zone “calde”. Il Prof. Mosseau ha, infatti, rilevato che nelle aree più contaminate vi sono 300 microSieverts/ora (da contatore Geiger), superiore di 1.200 volte i livelli normali di radiazione, o 15 volte in più rispetto ad una radiografia toracica. È, quindi, l’esposizione a lungo termine (il vero parametro da prendere in considerazione) a diventare deleteria e, di conseguenza, la contaminazione ambientale di radionuclidi come il cesio 137, lo stronzio 90 e il plutonio 239, che hanno tempi di dimezzamento rispettivamente di 30, 28,5 e 24.100 anni.
Poiché, oltre questo termine, i radionuclidi decadranno alla metà delle loro concentrazioni precedenti, significa che continueranno per anni a contaminare i terreni (per esempio, 300 anni per il Cesio 137).
Mousseau afferma: “Quello che deve preoccupare è l’alimentazione, in quanto l’ingestione è la via principale per l’esposizione e l’intossicazione radioattiva”.
E nonostante le storie sulla natura fiorente nella zona di Chernobyl, il professore, già allora e adesso, non ne è convinto.
La prima sua scoperta (insieme a Møller) fu l’aumento delle mutazioni genetiche degli uccelli abitanti la zona di esclusione intorno a Chernobyl.
La coppia esaminò 20.000 “rondini da fienile” trovando in questi animali zampe storte, becchi deformi, code malformate, occhi irregolari e tumori.
Alcuni uccelli avevano piume rosse, dove avrebbero dovuto essere blu, e viceversa.
A causa della contaminazione della catena alimentare, le specie di uccelli erano diminuite di oltre il 50% nelle zone ad alta contaminazione radioattiva. Solo una piccola parte di rondini riesce a riprodursi, e solo il 5% delle uova riesce a schiudersi. Meno di un terzo degli uccelli raggiungono l’età adulta. Mousseau e Møller hanno potuto confermare queste anomalie genetiche esaminando lo sperma delle rondini.
Una delle loro scoperte più interessanti fu la connessione tra gli antiossidanti, le radiazioni ed il colore del piumaggio. In altre parole, negli esseri umani e negli uccelli, gli antiossidanti aiutano ad annullare gli effetti delle radiazioni. “Gli uccelli, con piumaggio brillante, che migrano a grandi distanze, come le rondini, devono impiegare un altissimo tasso metabolico producendo, come sottoprodotto, molti radicali liberi che, a loro volta, danneggiano i tessuti”, spiega Mousseau.
“Devono quindi utilizzare le scorte di antiossidanti presenti nel sangue e nel fegato per compensare questo danno potenziale. Le femmine utilizzano grandi quantità di antiossidanti per le loro uova, e questa è la ragione per cui anche il tuorlo è giallo brillante”.
Ma alla fine della loro migrazione le risorse di energia devono essere reintegrate. “E questo non è possibile da realizzare nelle zone fortemente contaminate”.
Anche gli insetti soffrono gli effetti della radioattività. Nelle zone più contaminate ci sono meno farfalle, calabroni, cavallette, libellule e ragni. “Il fatto che gli insetti, compresi gli impollinatori, siano sensibili alla contaminazione ha un impatto significativo sul resto dell’ecosistema”.
Quanto affermato da Mousseau è, quindi, il ritratto di un ecosistema in crisi.
Come fanno altri scienziati a dimostrare il contrario?
Per esempio, i dottori Baker e Chesser della Texas Tech. University, pubblicarono un loro studio sulla rivista “American Scientist” nel 2006. “Siamo stati sorpresi dalla varietà di mammiferi che vivono all’ombra del reattore distrutto dopo così poco tempo”.
Questi studi, in contrasto con quelli di Mousseau e Moller, parlano di una popolazione di cinghiali 10 – 15 volte superiore nella zona di esclusione rispetto all’esterno e non riscontrano tassi elevati di mutazione o prove che differenzino la percentuale di sopravvivenza tra gli animali che vivono a Chernobyl con quelli che vivono in ambienti puliti.
Ma Mousseau afferma: “Chernobyl non è un paesaggio lunare. E’ possibile vedere uccelli e mammiferi, lupi, volpi, ci sono alberi e piante – quindi non è un deserto totale. La ragione di questo malinteso è che la concentrazione della contaminazione radioattiva non è uniforme. Così si possono avere tanti essere viventi ed organismi in una zona, e nessuno in un’altra. Per un biologo esperto, però, tutto ciò dovrebbe essere molto evidente”. Ed è quanto, da un altro punto di vista, ha dimostrato il professore Bandazhevsky. La presenza di zone con diminuiti livelli di contaminazione radioattiva, non produce subito in nuovi organismi viventi sopraggiunti (sia fauna che flora), manifestazioni patologiche o sintomatologiche: è questo che fa credere o illudere ad un ritorno alla normalità. Ma in queste zone meno contaminate, in cui il decadimento radioattivo per varie cause è stato più veloce, è presente l’azione costane e cronica dei radionuclidi come il Cesio, lo Stronzio e il Plutonio, di cui il tempo di dimezzamento (o emivita) non equivale al dimezzamento della sua durata nell’ambiente, ma definisce il tempo occorrente perché la metà degli atomi decadano in un altro elemento. Per questo bisogna già pensare alla pericolosa attività di alcuni prodotti derivati, quali l’Americio e il Bario. Questa azione a lungo tempo si manifesta con una emissione costante di basse dosi di radiazioni che, col tempo appunto, indurranno mutazioni genetiche negli organismi viventi residenti (senza evidenza clinica e, quindi, supportando l’idea/illusione di un “buon stato di salute”) e, solo secondariamente (anni successivi o future generazioni) e sotto il loro continuo stimolo, potranno dare segni oggettivi.
Questa è la realtà che deve tenere presente chi osserva l’evolversi degli avvenimenti non solo nella zona di esclusione, ma in tutte le zone colpite dal fallout radioattivo.
Un altro approccio, oltre che scientificamente sbagliato, è disonesto.
Per questo concordo con Mousseau che, nei confronti degli scienziati (soprattutto ucraini) che criticano le conclusioni del suo studio e per i quali la zona sta diventando un rifugio per la fauna selvatica a causa della mancanza di interferenza umana, afferma che queste dichiarazioni sono “puramente aneddotiche”.
E a favore di Mousseau vi è il fatto che nessuno è stato in grado di effettuare una ricerca così rigorosa (quasi quattro anni di catalogazione e studio, conteggio rigoroso dei soggetti presi in esame, loro distribuzione e rapporto con la contaminazione di fondo).
“Gli animali indagati, e soprattutto gli uccelli, offrono la miglior “misura quantitativa” dell’impatto sulla fauna selvatica della contaminazione radioattiva ed il censimento delle specie animali in quest’area, effettuato per quasi quattro anni, ha prodotto notevoli prove che dimostrano come la radioattività abbia un “impatto significativo” sulla diminuzione della biodiversità. La verità è che gli effetti nocivi della contaminazione radioattiva sono talmente grandi da risultare schiaccianti. Questo è il primo documento che fornisce dati rigorosi e quantitativi sul fatto che la vita dei mammiferi della zona chiusa è significativamente influenzata dalla presenza della contaminazione radioattiva. In ogni caso, non penso che sia una cattiva idea definire questa zona “un rifugio per la fauna selvatica”, se questo venisse però utilizzato come “laboratorio naturale”, in cui fosse possibile studiare le conseguenze a lungo termine di un incidente di tale tipo”.
Il professor Mousseu ha anche criticato un recente film documentario intitolato “Chernobyl, a natural history", promosso da una società di produzione francese (chissà come mai, proprio francese!!!!), che mostra come la natura abbia “ricolonizzato” la zona di esclusione in assenza dell’uomo: “Se la società vuole saperne di più sulle conseguenze a lungo termine delle grosse catastrofi ambientali – e Chernobyl è solo una delle tante – è importante che tutti noi (ricercatori) ci assumiamo seriamente le nostre responsabilità”.
Inoltre il Prof. Mousseau ha recentemente iniziato a collaborare con l’Ospedale di Biologia radioattiva a Kiev, per uno studio a lungo termine sulle persone che vivono nella zona: oltre 11.000 adulti e 2.000 bambini nella regione di Narodichi, a 50 chilometri da Chernobyl.
Il professore afferma che l’incidenza del cancro, dei difetti alla nascita e la riduzione della vita media è, tra gli abitanti della regione, allarmante: “Esiste una montagna di informazioni che comprendono tutti i punti sulle conseguenze significative dell’esposizione cronica alle radiazioni della popolazione umana. Quali saranno le conseguenze per i figli di questi bambini?”
Anche i dati resi pubblici dal prof Bandazhevsky ne sono un’ulteriore conferma: soprattutto l’inversione delle linee dei tassi di natalità e mortalità nelle zone maggiormente contaminate (proprio in prossimità di quella “zona di esclusione” che, per alcuni, si è rivitalizzata), l’aumento dei tumori e delle patologie del sistema cardiocircolatorio (soprattutto nei bambini) e delle patologie e malformazioni genetiche.
Mi preme comunque ricordare come, dalle ricerche di Mousseau e Møller, si evinca la migliore saggezza delle rondini rispetto agli umani ricolonizzatori. A Chernobyl, infatti, gli uccelli scelgono di nidificare in posti con un basso livello di radioattività di fondo. Mousseau e Møller hanno posizionato, per le loro ricerche, più di 200 cassette per nidi nella Foresta Rossa, a circa 3 Km di distanza dal reattore nucleare esploso nel 1986. Usando questi nidi artificiali, i due ricercatori hanno studiato le abitudini di nidificazione di due specie di uccelli – la cinciallegra Parus major e la balia nera Ficedula hypoleuca. Volevano osservare se entrambe le specie avrebbero fatto differenze tra i siti di nidificazione con livelli alti e bassi di radiazione di fondo. Le cassette da nido si trovavano in posizioni molto simili, con risorse alimentari comparabili a portata di becco, ma con una radioattività di fondo diversa, dovuta alla distribuzione a macchia di leopardo del fallout post incidente. I livelli vicino ad alcuni nidi erano di 2.000 volte superiori rispetto al fondo naturale di radioattività. Mousseau e Møller hanno annotato che entrambe le specie preferiscono di gran lunga i nidi posti in zone a bassa radioattività e che la balia nera sembra essere più sensibile della cinciallegra. E questo non ci dovrebbe insegnare niente?
Infine, un breve accenno per quanto riguarda la possibilità di coltivare nella zona di esclusione di Chernobyl: semplicemente la forma migliore per immettere in circolo molti isotopi interrati, oltre che metterli in contatto con le falde acquifere.
Già, dai miei primi viaggi nelle zone contaminate da Chernobyl (1994), sentivo parlare di profondi scassi e arature per cercare di “diluire” la contaminazione radioattiva presente al suolo. Tutto inutile!
Ora con l’ipotesi di riavviare forme di coltivazione verranno rintrodotte queste tecniche (e non solo) tipiche dell’agricoltura.
Se non un crimine, almeno una grande stupidata per questi nuovi “Stranamore” (nel senso della canzone di Vecchioni: “Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione / e quando fu di fronte “alla zona” si sentì un coglione / perchè più in là non si poteva conquistare niente…”).
Massimo Bonfatti
Fonte: Progetto Humus, 8 gennaio 2011
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