La scala internazionale di valutazione degli incidenti nucleari e radiologici INES (International Nuclear Event Scale INES) classifica avvenimenti rilevanti per la sicurezza negli impianti nucleari su una scala da 1 a 7. L’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986 è stato a lungo l’unico attribuito al livello più elevato 7.
Anche l’incidente nella centrale nucleare Fukushima-Daiichi dell’11 marzo 2011 è stato attribuito al livello INES 7 dalle autorità competenti. Si impone quindi un confronto tra i due avvenimenti per quel concerne la causa e le conseguenze.
Infatti è sempre stato sottolineato, anche dall’ENSI, che nei due reattori di costruzione occidentale, utilizzati anche a Fukushima, un incidente come a Chernobyl non è possibile.
Una differenza sostanziale dei due incidenti è il tipo di costruzione dei reattori. Il reattore di Chernobyl era costruito in modo tale che in determinate circostanze si potesse verificare una reazione a catena incontrollata. Ed è proprio quello che successe il 26 aprile 1986 nel corso di un test: nell’arco di qualche secondo il reattore superò di diverse centinaia di volte la potenza massima prevista. L’acqua del circuito di raffreddamento e altro materiale evaporò di colpo provocando un’esplosione, che distrusse il reattore e l’edificio del reattore. A questo si aggiunse il fatto che, a causa della costruzione, il reattore conteneva grandi quantitativi di grafite che si incendiarono. In questo tipo di reattore la grafite ha la funzione di moderatore di neutroni necessario per mantenere la reazione a catena. L’incendio della grafite durò diversi giorni, il calore sprigionatosi trasportò nell’atmosfera notevoli quantità di radioattività fuoriuscita, provocando una diffusione molto estesa delle sostanze radioattive.
A Fukushima-Daiichi, invece, con i 6 blocchi di reattori ad acqua leggera, al momento del forte terremoto dell’11 marzo 2011 tutti e tre i reattori in funzione (l’1, il 2 e il 3) vennero spenti inserendo le barre di controllo. I noccioli dei reattori costituiti da elementi di combustibile nucleare all’uranio continuarono tuttavia a sviluppare il cosiddetto calore di decadimento, che diminuisce progressivamente, ma che all’inizio può raggiungere quasi il dieci per cento della potenza massima del reattore. Il sistema d’alimentazione esterna di corrente elettrica era stato distrutto dal sisma ed i generatori diesel d’emergenza a disposizione per queste evenienze hanno funzionato soltanto per un’ora, dopo di che lo tsunami li mise fuori servizio. Rimasero a disposizione soltanto sistemi ausiliari a batteria, che erano però in grado di assicurare alla meno peggio il raffreddamento dei reattori soltanto per qualche ora o al massimo una giornata. Con pompe mobili si è cercato di immettere acqua nei reattori, però con un successo solo tardivo o all’inizio soltanto parziale. Gradualmente i reattori da 1 a 3 continuarono a scaldarsi, l’acqua rimasta nei reattori incominciò a evaporare e alla fine i noccioli dei reattori non erano più coperti dall’acqua, per lo meno nella parte più alta. L’ulteriore surriscaldamento provocò dei danni al nocciolo e probabilmente anche la fusione parziale dei noccioli dei reattori. L’acqua evaporata, ma anche l’idrogeno creatosi in seguito alle reazioni chimiche del nocciolo surriscaldato, hanno fatto salire fortemente la pressione nei reattori. Per evitare che i contenitori a pressione e quelli di sicurezza scoppiassero, attraverso delle valvole si è lasciata fuoriuscire la pressione. Di conseguenza, gas contenente idrogeno pervenne nelle zone esterne degli edifici del reattore. Le zone superiori degli edifici del reattore dei blocchi 1 e 3 vennero distrutte da esplosioni di idrogeno. Si deve poi presumere che siano danneggiati i contenitori di sicurezza intorno al reattore del blocco 2 ed eventualmente anche del blocco 3.
Nei bacini nella parte alta dalle sei costruzioni dei reattori erano stati stoccati degli elementi di combustibili prelevati dai reattori. Anche i bacini di deposito per elementi di combustibile si scaldano senza raffreddamento continuo nell’arco di giorni o di settimane, a seconda del carico, a un livello tale che l’acqua evapora e gli elementi di combustibile rimangono scoperti. Prima che si potesse ottenere un raffreddamento sufficiente con l’apporto esterno di acqua ricorrendo a pompe mobili, al bacino completamente carico del blocco 4 si ebbe un surriscaldamento, con la formazione di idrogeno seguita quindi da un’esplosione che distrusse a sua volta la parte superiore dell’edificio del reattore.
Nel caso di Chernobyl, molto rapidamente dopo l’inizio dell’incidente fuoriuscì una quantità notevole di radioattività. In questo modo non si poté organizzare un’evacuazione tempestiva e non solo il personale della centrale sul posto, ma anche la popolazione delle zone circostanti venne esposta a forti dosi di radiazioni. Nei giorni e nelle settimane successive si evacuarono inizialmente poco più di 100’000 persone in un raggio di 30 km dalla centrale, negli anni seguenti altre 200’000. La nuvola radioattiva trasportata in seguito all’esplosione e all’incendio in alta quota contaminò in misura diversa parte dell’Ucraina, della Bielorussia e della Russia e anche estese regioni europee. Per far fronte all’incidente, in particolare per evitare ulteriori emissioni di radioattività racchiudendo il reattore dell’incidente in un cosiddetto sarcofago, si fecero intervenire centinaia di migliaia di lavoratori (“liquidatori”). Soprattutto le persone intervenute immediatamente dopo l’incidente ricevettero dosi di radiazioni in parte estremamente elevate.
Secondo una stima delle autorità giapponesi la radioattività emessa sino a oggi al sito di Fukushima è un decimo di quella di Chernobyl. A Fukushima la radioattività si diffuse più debolmente tramite l’atmosfera, per cui tendenzialmente la contaminazione si concentrò di più nelle regioni circostanti. Grazie a dei venti prevalentemente occidentali una grande parte della radioattività venne trasportata sul Pacifico, e inoltre acqua di raffreddamento estremamente radioattiva si riversò in mare. Poiché soltanto dopo alcuni giorni si ebbero emissioni importanti di radioattività, in un raggio di 20 km dall’impianto è stato possibile evacuare tempestivamente la popolazione, da 70’000 a 80’000 persone circa. In un secondo tempo l’evacuazione venne estesa a singole zone fortemente contaminate al di fuori di quest’area. Le forze d’intervento necessarie a Fukushima per far fronte all’incidente sono state notevolmente inferiori per numero a quelle di Chernobyl. Secondo quanto dichiarato dalle autorità giapponesi, dei 300 lavoratori chiamati a intervenire a Fukushima-Daiichi, 28 hanno ricevuto una dose di 100 Millisievert; nessun lavoratore ha quindi fino a ora raggiunto il valore limite di 250 Millisievert fissato dalle autorità per i casi d’emergenza.
Nel caso di Fukushima, attualmente è ancora difficile valutare le conseguenze a medio e a lungo termine per l’uomo e l’ambiente. Globalmente si può però presumere che le conseguenze radiologiche dell’incidente di Fukushima siano notevolmente meno gravi di quelle di Chernobyl. Intorno a Chernobyl è stato vietato l’accesso a una zona di 4000 chilometri quadrati che fino ad ora non ha potuto essere utilizzata. Questa situazione si protrarrà ancora a lungo. Attualmente non si può ancora dire per quanto tempo rimarrà chiusa la zona vietata in un raggio di 20 chilometri dal sito di Fukushima-Daiichi. A parte le conseguenze radiologiche, non va dimenticato un ulteriore importante fattore: le conseguenze psichiche della paura delle radiazioni e dello sradicamento delle persone evacuate.
Anche l’incidente nella centrale nucleare Fukushima-Daiichi dell’11 marzo 2011 è stato attribuito al livello INES 7 dalle autorità competenti. Si impone quindi un confronto tra i due avvenimenti per quel concerne la causa e le conseguenze.
Infatti è sempre stato sottolineato, anche dall’ENSI, che nei due reattori di costruzione occidentale, utilizzati anche a Fukushima, un incidente come a Chernobyl non è possibile.
Una differenza sostanziale dei due incidenti è il tipo di costruzione dei reattori. Il reattore di Chernobyl era costruito in modo tale che in determinate circostanze si potesse verificare una reazione a catena incontrollata. Ed è proprio quello che successe il 26 aprile 1986 nel corso di un test: nell’arco di qualche secondo il reattore superò di diverse centinaia di volte la potenza massima prevista. L’acqua del circuito di raffreddamento e altro materiale evaporò di colpo provocando un’esplosione, che distrusse il reattore e l’edificio del reattore. A questo si aggiunse il fatto che, a causa della costruzione, il reattore conteneva grandi quantitativi di grafite che si incendiarono. In questo tipo di reattore la grafite ha la funzione di moderatore di neutroni necessario per mantenere la reazione a catena. L’incendio della grafite durò diversi giorni, il calore sprigionatosi trasportò nell’atmosfera notevoli quantità di radioattività fuoriuscita, provocando una diffusione molto estesa delle sostanze radioattive.
A Fukushima-Daiichi, invece, con i 6 blocchi di reattori ad acqua leggera, al momento del forte terremoto dell’11 marzo 2011 tutti e tre i reattori in funzione (l’1, il 2 e il 3) vennero spenti inserendo le barre di controllo. I noccioli dei reattori costituiti da elementi di combustibile nucleare all’uranio continuarono tuttavia a sviluppare il cosiddetto calore di decadimento, che diminuisce progressivamente, ma che all’inizio può raggiungere quasi il dieci per cento della potenza massima del reattore. Il sistema d’alimentazione esterna di corrente elettrica era stato distrutto dal sisma ed i generatori diesel d’emergenza a disposizione per queste evenienze hanno funzionato soltanto per un’ora, dopo di che lo tsunami li mise fuori servizio. Rimasero a disposizione soltanto sistemi ausiliari a batteria, che erano però in grado di assicurare alla meno peggio il raffreddamento dei reattori soltanto per qualche ora o al massimo una giornata. Con pompe mobili si è cercato di immettere acqua nei reattori, però con un successo solo tardivo o all’inizio soltanto parziale. Gradualmente i reattori da 1 a 3 continuarono a scaldarsi, l’acqua rimasta nei reattori incominciò a evaporare e alla fine i noccioli dei reattori non erano più coperti dall’acqua, per lo meno nella parte più alta. L’ulteriore surriscaldamento provocò dei danni al nocciolo e probabilmente anche la fusione parziale dei noccioli dei reattori. L’acqua evaporata, ma anche l’idrogeno creatosi in seguito alle reazioni chimiche del nocciolo surriscaldato, hanno fatto salire fortemente la pressione nei reattori. Per evitare che i contenitori a pressione e quelli di sicurezza scoppiassero, attraverso delle valvole si è lasciata fuoriuscire la pressione. Di conseguenza, gas contenente idrogeno pervenne nelle zone esterne degli edifici del reattore. Le zone superiori degli edifici del reattore dei blocchi 1 e 3 vennero distrutte da esplosioni di idrogeno. Si deve poi presumere che siano danneggiati i contenitori di sicurezza intorno al reattore del blocco 2 ed eventualmente anche del blocco 3.
Nei bacini nella parte alta dalle sei costruzioni dei reattori erano stati stoccati degli elementi di combustibili prelevati dai reattori. Anche i bacini di deposito per elementi di combustibile si scaldano senza raffreddamento continuo nell’arco di giorni o di settimane, a seconda del carico, a un livello tale che l’acqua evapora e gli elementi di combustibile rimangono scoperti. Prima che si potesse ottenere un raffreddamento sufficiente con l’apporto esterno di acqua ricorrendo a pompe mobili, al bacino completamente carico del blocco 4 si ebbe un surriscaldamento, con la formazione di idrogeno seguita quindi da un’esplosione che distrusse a sua volta la parte superiore dell’edificio del reattore.
Nel caso di Chernobyl, molto rapidamente dopo l’inizio dell’incidente fuoriuscì una quantità notevole di radioattività. In questo modo non si poté organizzare un’evacuazione tempestiva e non solo il personale della centrale sul posto, ma anche la popolazione delle zone circostanti venne esposta a forti dosi di radiazioni. Nei giorni e nelle settimane successive si evacuarono inizialmente poco più di 100’000 persone in un raggio di 30 km dalla centrale, negli anni seguenti altre 200’000. La nuvola radioattiva trasportata in seguito all’esplosione e all’incendio in alta quota contaminò in misura diversa parte dell’Ucraina, della Bielorussia e della Russia e anche estese regioni europee. Per far fronte all’incidente, in particolare per evitare ulteriori emissioni di radioattività racchiudendo il reattore dell’incidente in un cosiddetto sarcofago, si fecero intervenire centinaia di migliaia di lavoratori (“liquidatori”). Soprattutto le persone intervenute immediatamente dopo l’incidente ricevettero dosi di radiazioni in parte estremamente elevate.
Secondo una stima delle autorità giapponesi la radioattività emessa sino a oggi al sito di Fukushima è un decimo di quella di Chernobyl. A Fukushima la radioattività si diffuse più debolmente tramite l’atmosfera, per cui tendenzialmente la contaminazione si concentrò di più nelle regioni circostanti. Grazie a dei venti prevalentemente occidentali una grande parte della radioattività venne trasportata sul Pacifico, e inoltre acqua di raffreddamento estremamente radioattiva si riversò in mare. Poiché soltanto dopo alcuni giorni si ebbero emissioni importanti di radioattività, in un raggio di 20 km dall’impianto è stato possibile evacuare tempestivamente la popolazione, da 70’000 a 80’000 persone circa. In un secondo tempo l’evacuazione venne estesa a singole zone fortemente contaminate al di fuori di quest’area. Le forze d’intervento necessarie a Fukushima per far fronte all’incidente sono state notevolmente inferiori per numero a quelle di Chernobyl. Secondo quanto dichiarato dalle autorità giapponesi, dei 300 lavoratori chiamati a intervenire a Fukushima-Daiichi, 28 hanno ricevuto una dose di 100 Millisievert; nessun lavoratore ha quindi fino a ora raggiunto il valore limite di 250 Millisievert fissato dalle autorità per i casi d’emergenza.
Nel caso di Fukushima, attualmente è ancora difficile valutare le conseguenze a medio e a lungo termine per l’uomo e l’ambiente. Globalmente si può però presumere che le conseguenze radiologiche dell’incidente di Fukushima siano notevolmente meno gravi di quelle di Chernobyl. Intorno a Chernobyl è stato vietato l’accesso a una zona di 4000 chilometri quadrati che fino ad ora non ha potuto essere utilizzata. Questa situazione si protrarrà ancora a lungo. Attualmente non si può ancora dire per quanto tempo rimarrà chiusa la zona vietata in un raggio di 20 chilometri dal sito di Fukushima-Daiichi. A parte le conseguenze radiologiche, non va dimenticato un ulteriore importante fattore: le conseguenze psichiche della paura delle radiazioni e dello sradicamento delle persone evacuate.
Grazie Alessandro, anche per questo articolo chiaro ed interessante.
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