La redazione del sito ilgiornaledellaprotezionecivile.it ha ricevuto e pubblicato il resoconto di un lettore che ha recentemente visitato i luoghi del noto disastro nucleare per vedere quali conseguenze del più grande disastro industriale che il mondo abbia mai conosciuto siano ancora oggi visibili a quasi venticinque anni dall'accaduto. Lo riporto per vari motivi: è uno degli argomenti cui è dedicato questo spazio, è un racconto ben scritto e molto completo, è un modo per ricordare e offre lo spunto per continuare a riflettere su quel che è stato, su quel che è e su quel che potrebbe essere in futuro.
L'incidente
Era da poco passata l'una la notte del 26 aprile 1986, quando il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl esplose: la quantità di materiale radioattivo rilasciata fu massiccia; una nube tossica contaminò pesantemente Ucraina, Bielorussia e parte della Russia e sospinta dalle correnti atmosferiche, giunse a interessare gran parte dell'Europa. La zona che fu maggiormente esposta alle radiazioni fu quella compresa entro un raggio di 30 km dalla centrale, chiamata "zona di esclusione", ancora oggi interdetta e presidiata militarmente. Nelle ore comprese fra l'esplosione e l'evacuazione dell'area, in cui vivevano circa 135.000 persone, 48.000 delle quali nella vicinissima città di Prypjat, la popolazione fu esposta a una dose elevatissima di radiazioni che provocò danni alla salute ingentissimi e ancora oggi incalcolabili. A causare l'incidente fu un esperimento che aveva, paradossalmente, lo scopo di verificare il funzionamento in sicurezza del reattore in condizioni di momentaneo black-out; nel corso di questa simulazione si mischiarono fatalmente violazioni delle procedure operative e svariati errori umani, a cui vanno aggiunti una serie di difetti nella struttura stessa del reattore, che raggiunse nel giro di pochi secondi condizioni di estrema instabilità provocando due violente esplosioni. L'edificio fu scoperchiato e all'esterno si scagliarono tonnellate di materiale altamente radioattivo che incendiarono i fabbricati adiacenti emanando polveri e vapori tossici.
Diverse ombre permangono sugli atteggiamenti tenuti dal governo sovietico che diede ufficialmente la notizia solo due giorni dopo, quando la comunità scientifica europea aveva già sollevato l'allarme per l'improvvisa registrazione di livelli di radioattività sospetti nell'aria. A questo si unisce anche l'insufficiente informazione sulla reale pericolosità di ciò che stava per affrontare gran parte del personale accorso immediatamente sul luogo senza adeguate misure di protezione. Parliamo prima dei vigili del fuoco e dei militari accorsi a spegnere i focolai e poi dei cosiddetti "liquidatori", circa 650.000 uomini che dal 1986 al 1990 lavorarono, in condizioni spesso disumane, per bonificare e contenere ciò che restava del reattore nel "sarcofago" in cui ancora oggi è racchiuso.
Il viaggio
Visitando i Paesi di quello che fu l'impero sovietico a oltre vent'anni anni dalla sua caduta si incontrano contrasti impressionanti, grandi città all'avanguardia, sviluppate e consumistiche che si contrappongono a periferie e campagne povere e desolate; ricchezza e povertà che si allontanano sempre più l'una dall'altra. E' questa la prima impressione che si ha quando dal luccichio delle cupole dorate delle chiese della splendida Kiev, capitale ucraina che conta oltre 3 milioni di abitanti, si percorrono le strade verso nord in direzione Bielorussia lasciandosi a destra il confine Russo per raggiungere la zona di Chernobyl. Si esce da Kiev percorrendo una grande autostrada ma appena superata l'abitazione del presidente Janukovic ci si trova su una strada mal curata e stretta, le case si trasformano da ville a piccole, se pur dignitose, casette e la natura incontaminata pian piano si sostituisce agli abitati. Si incontrano sempre meno auto man mano che si sale verso nord e percorsi poco più di 100km si arriva al primo posto militare di controllo per attraversare il quale occorre uno specifico permesso scritto: è l'ingresso della cosiddetta zona morta che si estende per un perimetro di circa 30km dalla centrale nucleare.
Una volta entrati si percorre ancora qualche chilometro e si arriva nella città di Chernobyl dove si incontra ancora qualche auto e qualche persona indaffarata in attività di vario genere, qui vivono ancora alcune centinaia di persone, c'è un piccolo museo a perfino alcuni market. Da qui in poi sarà una guida autorizzata ad accompagnarci; ancora 12km ci separano dai reattori. Nel percorso si effettuano varie tappe, la prima dinnanzi all'attuale caserma dei vigili del fuoco dominata da un monumento che ricorda i colleghi caduti, poi si possono vedere automezzi civili e militari abbandonati all'indomani dell'incidente e cumuli di terrà che nascondono edifici abbattuti e sotterrati per contenere la radioattività. Il profondo silenzio è interrotto soltanto dal cicalino del contatore Geiger che la guida porta con sè e che ogni volta che viene avvicinato a terra o su un automezzo abbandonato segnala la presenza di radiazioni ancora piuttosto forti.
Superato a bordo dell'auto un secondo punto di controllo posto a 10km dalla centrale proseguiamo per alcuni minuti e di fianco a noi compare una mastodontica struttura circondata da enormi gru: sono i reattori 5 e 6, la cui costruzione fu abbandonata all'indomani dell'incidente; di fronte a noi invece, a qualche centinaio di metri di distanza, i reattori 1, 2, 3 e 4. Da una ciminiera in lontananza esce ancora del fumo probabilmente proveniente da impianti di raffreddamento ancora attivi, molti infatti non sanno che all'indomani dell'incidente avvenuto al reattore numero 4 i restanti reattori continuarono a funzionare per parecchi anni, l'ultimo ad essere spento definitivamente è stato il numero 3 solo alla fine del 2000. Si arriva fino ad uno spiazzo a poche decine di metri dal sarcofago dove un monumento ricorda la tragedia: qui il contatore Geiger suona spontaneamente ricordandoci che il sarcofago è destinato a rimanere radioattivo ancora per molte migliaia di anni. La pericolosità del suo contenuto è impressionante: 190 tonnellate di uranio e una tonnellata di pericolosissimo plutonio fuse assieme in un cumulo radioattivo che per la sua forma prende il nome di "Piede d'Elefante"; la struttura protettiva dovrà presto essere sottoposta a migliorie e potenziamenti ma sembra che al momento, nonostante gli aiuti internazionali, i fondi disponibili non siano sufficienti a completare l'opera tanto che si temono nuove minacce radioattive per la popolazione martoriata dell'area.
Il viaggio non è finito, la parte più impressionante deve ancora venire. Ripartiamo e percorsi circa 4km ci troviamo alle porte di Prypjat, la cosiddetta città fantasma. Fondata nel 1970, contava 48.000 abitanti soddisfatti della qualità della loro vita; nel 1986 infatti questo era un luogo moderno, verde e confortevole in cui viveva il personale che operava nell'indotto della centrale e non solo. Per entrare si passa un altro avamposto militare, le strade sono invase dalla vegetazione e tutto ciò che ci circonda è deserto, il silenzio è assordante. Decine di palazzi altissimi in inconfondibile stile sovietico ci circondano come fossero degli enormi fantasmi. La sicurezza non è certo la prima preoccupazione della nostra guida, ci viene permesso di entrare all'interno di moltissimi edifici, un hotel, una biblioteca i cui volumi sono ancora sparsi sul pavimento, il teatro cittadino dove le gigantografie dei leader comunisti sono ancora in bella vista. Un passaggio poi in quello che un tempo era il parco giochi: tra una ruota panoramica arrugginita e l'autoscontro si rileva a terra la massima concentrazione di radioattività della zona; toccare il suolo equivarrebbe più o meno ad effettuare una radiografia, meglio lasciar perdere. Entriamo poi nel complesso scolastico, quaderni e libri ancora sui banchi, qualche bambola e perfino i resti delle maschere antigas. Impossibile non pensare al destino di tanti di quei bimbi. Ci accompagnano a vedere ciò che resta della piscina e l'interno di alcune abitazioni, tutte le porte sono aperte e nei corridoi risuona l'eco. Sui tetti degli edifici più alti della città svettano in maniera imponente falce e martello, ricordandoci chi era al potere all'epoca del disastro; potere che con omissioni e superficialità ha contribuito a rendere questa tragedia immane.
Prima di uscire dalla città la guida attira la nostra attenzione sul ponte che stiamo attraversando: "qui la notte dell'incidente si radunarono moltissimi cittadini per osservare l'incendio della centrale sottoponendosi ignari ad una potente doccia radioattiva, ben pochi di loro sono oggi tra noi". All'uscita della zona di rispetto veniamo nuovamente sottoposti ad un controllo, questa volta attraverso dei Geiger che misurano la radioattività di ognuno di noi: la speranza è che si accenda la luce verde altrimenti toccherà lasciare i vestiti ed effettuare una doccia decontaminante; stessa sorte a tutti gli oggetti a all'autovettura che ci ha accompagnato. Per fortuna siamo tutti "puliti" e possiamo rientrare a Kiev con un'immagine molto più chiara di ciò che ancora oggi rappresenta questa immane tragedia.
Riflessioni
I numeri delle vittime di questo disastro dimostrano la confusione e l'incertezza che ancora oggi dilagano. Le autorità russe all'epoca parlarono di poche decine di vittime, l'AIEA - Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica - nel 2005 stimava poco più di 4.000 vittime a seguito di tumori dovuti all'incidente, mentre Greenpace è arrivato a sostenere che le vittime dirette ed indirette supereranno i 6 milioni a 70 anni dall'evento. Gli studi sull'incidenza delle malattie neoplastiche nei paesi più colpiti dal disastro, con particolare riferimento al terribile problema alla ghiandola tiroidea, lasciano però poco spazio alle interpretazioni: la misura della tragedia è chiara in un messaggio di alcuni anni fa dell'ex segretario dell'ONU Kofi Annan che ha affermato che 9 milioni di adulti e più di 2 milioni di bambini soffrono delle conseguenze di Chernobyl.
Non credo certo di avere la preparazione per poter dare un giudizio tecnico sull'opportunità o meno di costruire in Italia centrali nucleari, una riflessione è però d'obbligo. Il risultato del referendum del 1987 che ha sancito l'abbandono del nucleare da parte dell'Italia ha una sua logica, gli italiani seppero interpretare meglio di altri la pericolosità di questa tecnologia che all'epoca era ancora piena di imperfezioni. La mia personale idea, nonostante questa toccante esperienza di viaggio, è che l'Italia possa con relativa tranquillità iniziare a ricorrere all'energia nucleare grazie alle nuove generazioni di centrali che dimostrano statisticamente di essere molto sicure, passando però per un'attenta individuazione di siti idonei e investendo molto nella sicurezza degli impianti. Il principale beneficio per la comunità, oltre ad un calo dei costi energetici, sarà l'abbattimento delle emissioni in atmosfera dovute alle attuali centrali a carbone, olio combustibile e petrolio. Non dovrà però essere interrotto il percorso obbligato verso le energie rinnovabili che rappresentano il vero ed unico futuro del Pianeta.
Ringraziamenti alla giornalista Kateryna Kelbus dell'emittente nazionale ucraina "Channell 5" che mi ha accompagnato nel viaggio curando gli aspetti organizzativi e la traduzione.
di Davide Livocci,
giornalista pubblicista esperto in protezione civile, soccorso e sicurezza
L'incidente
Era da poco passata l'una la notte del 26 aprile 1986, quando il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl esplose: la quantità di materiale radioattivo rilasciata fu massiccia; una nube tossica contaminò pesantemente Ucraina, Bielorussia e parte della Russia e sospinta dalle correnti atmosferiche, giunse a interessare gran parte dell'Europa. La zona che fu maggiormente esposta alle radiazioni fu quella compresa entro un raggio di 30 km dalla centrale, chiamata "zona di esclusione", ancora oggi interdetta e presidiata militarmente. Nelle ore comprese fra l'esplosione e l'evacuazione dell'area, in cui vivevano circa 135.000 persone, 48.000 delle quali nella vicinissima città di Prypjat, la popolazione fu esposta a una dose elevatissima di radiazioni che provocò danni alla salute ingentissimi e ancora oggi incalcolabili. A causare l'incidente fu un esperimento che aveva, paradossalmente, lo scopo di verificare il funzionamento in sicurezza del reattore in condizioni di momentaneo black-out; nel corso di questa simulazione si mischiarono fatalmente violazioni delle procedure operative e svariati errori umani, a cui vanno aggiunti una serie di difetti nella struttura stessa del reattore, che raggiunse nel giro di pochi secondi condizioni di estrema instabilità provocando due violente esplosioni. L'edificio fu scoperchiato e all'esterno si scagliarono tonnellate di materiale altamente radioattivo che incendiarono i fabbricati adiacenti emanando polveri e vapori tossici.
Diverse ombre permangono sugli atteggiamenti tenuti dal governo sovietico che diede ufficialmente la notizia solo due giorni dopo, quando la comunità scientifica europea aveva già sollevato l'allarme per l'improvvisa registrazione di livelli di radioattività sospetti nell'aria. A questo si unisce anche l'insufficiente informazione sulla reale pericolosità di ciò che stava per affrontare gran parte del personale accorso immediatamente sul luogo senza adeguate misure di protezione. Parliamo prima dei vigili del fuoco e dei militari accorsi a spegnere i focolai e poi dei cosiddetti "liquidatori", circa 650.000 uomini che dal 1986 al 1990 lavorarono, in condizioni spesso disumane, per bonificare e contenere ciò che restava del reattore nel "sarcofago" in cui ancora oggi è racchiuso.
Il viaggio
Visitando i Paesi di quello che fu l'impero sovietico a oltre vent'anni anni dalla sua caduta si incontrano contrasti impressionanti, grandi città all'avanguardia, sviluppate e consumistiche che si contrappongono a periferie e campagne povere e desolate; ricchezza e povertà che si allontanano sempre più l'una dall'altra. E' questa la prima impressione che si ha quando dal luccichio delle cupole dorate delle chiese della splendida Kiev, capitale ucraina che conta oltre 3 milioni di abitanti, si percorrono le strade verso nord in direzione Bielorussia lasciandosi a destra il confine Russo per raggiungere la zona di Chernobyl. Si esce da Kiev percorrendo una grande autostrada ma appena superata l'abitazione del presidente Janukovic ci si trova su una strada mal curata e stretta, le case si trasformano da ville a piccole, se pur dignitose, casette e la natura incontaminata pian piano si sostituisce agli abitati. Si incontrano sempre meno auto man mano che si sale verso nord e percorsi poco più di 100km si arriva al primo posto militare di controllo per attraversare il quale occorre uno specifico permesso scritto: è l'ingresso della cosiddetta zona morta che si estende per un perimetro di circa 30km dalla centrale nucleare.
Una volta entrati si percorre ancora qualche chilometro e si arriva nella città di Chernobyl dove si incontra ancora qualche auto e qualche persona indaffarata in attività di vario genere, qui vivono ancora alcune centinaia di persone, c'è un piccolo museo a perfino alcuni market. Da qui in poi sarà una guida autorizzata ad accompagnarci; ancora 12km ci separano dai reattori. Nel percorso si effettuano varie tappe, la prima dinnanzi all'attuale caserma dei vigili del fuoco dominata da un monumento che ricorda i colleghi caduti, poi si possono vedere automezzi civili e militari abbandonati all'indomani dell'incidente e cumuli di terrà che nascondono edifici abbattuti e sotterrati per contenere la radioattività. Il profondo silenzio è interrotto soltanto dal cicalino del contatore Geiger che la guida porta con sè e che ogni volta che viene avvicinato a terra o su un automezzo abbandonato segnala la presenza di radiazioni ancora piuttosto forti.
Superato a bordo dell'auto un secondo punto di controllo posto a 10km dalla centrale proseguiamo per alcuni minuti e di fianco a noi compare una mastodontica struttura circondata da enormi gru: sono i reattori 5 e 6, la cui costruzione fu abbandonata all'indomani dell'incidente; di fronte a noi invece, a qualche centinaio di metri di distanza, i reattori 1, 2, 3 e 4. Da una ciminiera in lontananza esce ancora del fumo probabilmente proveniente da impianti di raffreddamento ancora attivi, molti infatti non sanno che all'indomani dell'incidente avvenuto al reattore numero 4 i restanti reattori continuarono a funzionare per parecchi anni, l'ultimo ad essere spento definitivamente è stato il numero 3 solo alla fine del 2000. Si arriva fino ad uno spiazzo a poche decine di metri dal sarcofago dove un monumento ricorda la tragedia: qui il contatore Geiger suona spontaneamente ricordandoci che il sarcofago è destinato a rimanere radioattivo ancora per molte migliaia di anni. La pericolosità del suo contenuto è impressionante: 190 tonnellate di uranio e una tonnellata di pericolosissimo plutonio fuse assieme in un cumulo radioattivo che per la sua forma prende il nome di "Piede d'Elefante"; la struttura protettiva dovrà presto essere sottoposta a migliorie e potenziamenti ma sembra che al momento, nonostante gli aiuti internazionali, i fondi disponibili non siano sufficienti a completare l'opera tanto che si temono nuove minacce radioattive per la popolazione martoriata dell'area.
Il viaggio non è finito, la parte più impressionante deve ancora venire. Ripartiamo e percorsi circa 4km ci troviamo alle porte di Prypjat, la cosiddetta città fantasma. Fondata nel 1970, contava 48.000 abitanti soddisfatti della qualità della loro vita; nel 1986 infatti questo era un luogo moderno, verde e confortevole in cui viveva il personale che operava nell'indotto della centrale e non solo. Per entrare si passa un altro avamposto militare, le strade sono invase dalla vegetazione e tutto ciò che ci circonda è deserto, il silenzio è assordante. Decine di palazzi altissimi in inconfondibile stile sovietico ci circondano come fossero degli enormi fantasmi. La sicurezza non è certo la prima preoccupazione della nostra guida, ci viene permesso di entrare all'interno di moltissimi edifici, un hotel, una biblioteca i cui volumi sono ancora sparsi sul pavimento, il teatro cittadino dove le gigantografie dei leader comunisti sono ancora in bella vista. Un passaggio poi in quello che un tempo era il parco giochi: tra una ruota panoramica arrugginita e l'autoscontro si rileva a terra la massima concentrazione di radioattività della zona; toccare il suolo equivarrebbe più o meno ad effettuare una radiografia, meglio lasciar perdere. Entriamo poi nel complesso scolastico, quaderni e libri ancora sui banchi, qualche bambola e perfino i resti delle maschere antigas. Impossibile non pensare al destino di tanti di quei bimbi. Ci accompagnano a vedere ciò che resta della piscina e l'interno di alcune abitazioni, tutte le porte sono aperte e nei corridoi risuona l'eco. Sui tetti degli edifici più alti della città svettano in maniera imponente falce e martello, ricordandoci chi era al potere all'epoca del disastro; potere che con omissioni e superficialità ha contribuito a rendere questa tragedia immane.
Prima di uscire dalla città la guida attira la nostra attenzione sul ponte che stiamo attraversando: "qui la notte dell'incidente si radunarono moltissimi cittadini per osservare l'incendio della centrale sottoponendosi ignari ad una potente doccia radioattiva, ben pochi di loro sono oggi tra noi". All'uscita della zona di rispetto veniamo nuovamente sottoposti ad un controllo, questa volta attraverso dei Geiger che misurano la radioattività di ognuno di noi: la speranza è che si accenda la luce verde altrimenti toccherà lasciare i vestiti ed effettuare una doccia decontaminante; stessa sorte a tutti gli oggetti a all'autovettura che ci ha accompagnato. Per fortuna siamo tutti "puliti" e possiamo rientrare a Kiev con un'immagine molto più chiara di ciò che ancora oggi rappresenta questa immane tragedia.
Riflessioni
I numeri delle vittime di questo disastro dimostrano la confusione e l'incertezza che ancora oggi dilagano. Le autorità russe all'epoca parlarono di poche decine di vittime, l'AIEA - Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica - nel 2005 stimava poco più di 4.000 vittime a seguito di tumori dovuti all'incidente, mentre Greenpace è arrivato a sostenere che le vittime dirette ed indirette supereranno i 6 milioni a 70 anni dall'evento. Gli studi sull'incidenza delle malattie neoplastiche nei paesi più colpiti dal disastro, con particolare riferimento al terribile problema alla ghiandola tiroidea, lasciano però poco spazio alle interpretazioni: la misura della tragedia è chiara in un messaggio di alcuni anni fa dell'ex segretario dell'ONU Kofi Annan che ha affermato che 9 milioni di adulti e più di 2 milioni di bambini soffrono delle conseguenze di Chernobyl.
Non credo certo di avere la preparazione per poter dare un giudizio tecnico sull'opportunità o meno di costruire in Italia centrali nucleari, una riflessione è però d'obbligo. Il risultato del referendum del 1987 che ha sancito l'abbandono del nucleare da parte dell'Italia ha una sua logica, gli italiani seppero interpretare meglio di altri la pericolosità di questa tecnologia che all'epoca era ancora piena di imperfezioni. La mia personale idea, nonostante questa toccante esperienza di viaggio, è che l'Italia possa con relativa tranquillità iniziare a ricorrere all'energia nucleare grazie alle nuove generazioni di centrali che dimostrano statisticamente di essere molto sicure, passando però per un'attenta individuazione di siti idonei e investendo molto nella sicurezza degli impianti. Il principale beneficio per la comunità, oltre ad un calo dei costi energetici, sarà l'abbattimento delle emissioni in atmosfera dovute alle attuali centrali a carbone, olio combustibile e petrolio. Non dovrà però essere interrotto il percorso obbligato verso le energie rinnovabili che rappresentano il vero ed unico futuro del Pianeta.
Ringraziamenti alla giornalista Kateryna Kelbus dell'emittente nazionale ucraina "Channell 5" che mi ha accompagnato nel viaggio curando gli aspetti organizzativi e la traduzione.
di Davide Livocci,
giornalista pubblicista esperto in protezione civile, soccorso e sicurezza
Fonte: Il giornale della Protezione civile.it, 27 ottobre 2010;
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