A quasi 27 anni dall’incidente di Chernobyl, la vecchia e fatiscente struttura della Centrale Nucleare V. Lenin avrà un nuovo involucro protettivo: il New Safe Confinement.
La vecchia struttura protettiva che il New Safe Confinement sostituirà, secondo gli scienziati non è riuscita in tutti questi anni a trattenere in maniera efficace il materiale radioattivo contenuto nel reattore n.4: trattandosi di un involucro teoricamente “temporaneo”, gli edifici della centrale nucleare hanno iniziato ben presto a vacillare e le continue crepe createsi sul famoso “sarcofago” hanno permesso alle polveri radioattive di liberarsi in aria e di infiltrarsi nel sottosuolo. Secondo gli esperti il nuovo nucleo protettivo, invece, garantirà protezione per 100 anni, periodo utile al raggiungimento di operazioni di bonifica non completamente risolutive, ma perlomeno soddisfacenti. La Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) responsabile della gestione dei fondi stanziati per l’installazione del nuovo nucleo protettivo si è detta soddisfatta dell’opera: 1,6 miliardi di euro ottenuti da Unione Europea, Stati Uniti e dai singoli stati del vecchio continente, tra cui l’Italia che ne ha versati 41,5 milioni.
Se la notizia della realizzazione del New Safe Confinement ha riportato in auge la vicenda di Chernobyl, le condizioni di vita e di salute di circa 2 milioni di persone esposte a radiazioni sono sempre più preoccupanti. Secondo un rapporto di Greenpeace, le vittime accertate sarebbero sinora tra 270.000 e 300.000, mentre sono sempre più frequenti i casi di tumori alla tiroide, in particolar modo sugli abitanti che all’epoca dell’incidente avevano un’età compresa tra i 0 e i 18 anni, a causa della presenza di iodio 121 nel latte quotidianamente ingerito. Nonostante le decine di rapporti stilati periodicamente da laboratori scientifici, nonostante i costi e le spese di decontaminazione che da più di 25 anni i governi ucraino, bielorusso e russo devono sostenere, nella provincia di Ostrovets al confine tra Bielorussia e Lituania sarà presto costruita una nuova centrale nucleare, col beneplacito del Cremlino.
Se gran parte dell’élite della scienza nucleare plaude al compimento dell’opera di protezione del reattore di Chernobyl, in pochi ricordano che il progetto per realizzazione del New Safe Confinement era stato deciso nel 1997 (G7 di Denver), che soltanto dopo 7 anni lo stesso progetto è diventato esecutivo, e che ha visto concretamente la luce solo nel 2012. E’ stato necessario attendere 15 anni per assistere alla realizzazione (parziale) di un’opera ingegneristica che invece sin dall’inizio, considerati i danni e le conseguenze dell’incidente, aveva carattere d’urgenza. Le decine di comitati indipendenti nati dopo l’incidente nucleare, oltre a sottolineare il disinteresse della politica locale e internazionale sui reali bisogni della popolazione, hanno anche ricordato proprio in occasione dell’annuncio di prossima installazione del New Safe Confinement che il nuovo sarcofago non risolverà comunque il problema più grave ancora presente a Chernobyl: non è stato ancora progettato un deposito per isolare la colata radioattiva presente nel cuore del reattore n.4 da ormai 27 anni.
Nell’estate dello scorso anno poi, una notizia aveva riportato il nome di Chernobyl sulle cronache mondiali: la decisione del Governo e del Ministero dell’Ambiente ucraini di rilanciare economicamente l’area contaminata, attraverso le energie rinnovabili. Un’idea lodevole, una grande occasione (per adesso solo sulla carta) per il rilancio economico di un’area abbandonata e depressa, sì. Ma ai buoni propositi per una ripresa economica dell’area si affianca il malcontento degli abitanti, di chi ha continuato a vivere a contatto con la nube tossica con le sue conseguenze per tutti questi anni. Nonostante il moltiplicarsi, non solo nelle zone direttamente interessate dall’incidente, di decine di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica su una tragedia tutt’altro che finita, l’ennesimo colpo inferto agli abitanti dell’area di Chernobyl è forse ancora di più la mancanza da parte dell’opinione pubblica di una consapevolezza e una memoria davvero reali.
Tra le aree più colpite, è il territorio bielorusso a soffrire maggiormente le conseguenze dell’incidente,complici anche l’assenza di politiche sociali adeguate da una parte, e le disastrose condizioni economiche del paese dall’altra. A rivelarlo è fra le molte associazioni indipendenti, Legambiente. Decine di migliaia di persone hanno continuato in questi 27 anni a vivere “indisturbate” nella zona interessata dalle radiazioni, a cibarsi ogni giorno di alimenti altamente radioattivi,e a ingerire acqua contaminata nel silenzio colpevole dell’intera classe politica internazionale.Tante cittadine e numerosi villaggi ricostruiti di sana pianta,sono stati in buona parte ripopolati da profughi provenienti dalla Cecenia e da altre zone dell’ex Unione Sovietica e in molti centri poco distanti dalla vecchia centrale Lenin, gli abitanti sono costretti a scaldarsi con combustibile contaminato, lo stesso combustibile che il governo ucraino aveva promesso di smaltire con la realizzazione di impianti di cogenerazione. L’area contaminata si estende per più di 150.000 km e l’infestazione da cesio continua ad essere il problema maggiore e sempre più attuale. Più degli altri elementi chimici liberatisi in aria quel fatidico 26 aprile 1986, la presenza del cesio resta la causa principale di decessi e malattie mortali anche tra gli ultimi nati: le particelle di cesio 137 che raggiungono l’organismo umano attraverso il respiro vi restano all’interno per circa 30 anni, continuando ad emettere radiazioni, dunque probabilmente sarà nel 2016, al 30 anniversario dell’incidente, che inizieranno a venire a galla le prime reali conseguenze date dalla presenza di cesio nell’ambiente.
Fonte: East Journal, 09/01/2013